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Al Politecnico di Milano una «serra» per le start-up

di Francesco Gaeta

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25 gennaio 2010

Il porto di Venezia e l'aeroporto di Firenze. Il dipartimento di polizia di Birmingham e l'ospedale di Busto Arsizio. Il monumento ai caduti del Vietnam in Virginia e il confine tra Arabia Saudita ed Emirati Arabi. Non c'è un filo che cuce questi luoghi. Perché è un collegamento wi-fi a collegare le telecamere dei sistemi di sicurezza di queste "postazioni sensibili", ed è firmato Fluidmesh. Uno guarda luoghi e commesse e dice: sarà una multinazionale. Invece è una start up, anno di nascita 2005, località Milano. Quattro ingegneri italiani, due con master all'Mit di Boston, nessuno sopra i trent'anni. Nel paese che discetta di bamboccioni, scopri a volte nicchie come queste, zolle di imprenditori in erba che parlano con l'esperienza del veterano e l'entusiasmo dei pionieri. L'esperienza sta nell'ostinazione con cui uno dei quattro, Torquato Bertani, 29 anni, spiega «che è meglio non rivelare fatturato e utili, questione di riservatezza» e di rispetto per i clienti. L'entusiasmo sta nella spinta che ha condotto la neonata Fluidmesh, in soli quattro anni, a essere leader dei sistemi di telesorveglianza wireless. Che ha portato i suoi ingegneri a percorrere migliaia di chilometri all'anno, a fare riunioni in videoconferenza tra aerei che decollavano e clienti da afferrare al volo.
Ma dietro questa storia, e altre 25 molto simili, c'è un segreto che sta in uno stabile di via Durando a Milano. È la sede dell'acceleratore d'impresa del Politecnico lombardo. Una fucina di idee che si fanno start up.

L'acceleratore d'impresa del Politecnico di Milano che ha generato Fluidmesh è ovviamente un luogo fisico. Ha quattro sedi, dove fa tutoraggio alle imprese. Ma è soprattutto uno spazio virtuale, al confine tra ricerca reale – fatta dai 35mila iscritti e i 1.400 docenti dell'ateneo – e impresa possibile. È una zona in cui si colloca il plancton dell'oceano universitario milanese, le 391 invenzioni e i 203 brevetti dell'ateneo.
A dare direzione, in quella che in Italia è in realtà una death valley per l'endemica latitanza di venture capital, è proprio l'incubatore di via Durando. «Cominciammo nel 2000» spiega Giuseppe Serazzi, che ne è stato fondatore e oggi ha sul tema una delega del rettore. Ma la svolta avviene nel 2007, quando nasce la fondazione Politecnico, con un board infarcito dai bei nomi dell'industria italiana, Ansaldo ed Enel, Trenitalia ed Edison. Più una manciata di enti locali, Comune e Provincia su tutti. Il disegno è chiaro: l'università dà i cervelli, il Politecnico garantisce sulle idee, le imprese affiancano, sostengono, a volte diventano partner industriali. Oggi sono 26 le nuove aziende come Fluidmesh, l'acceleratore ha vagliato 220 business plan, ha ascoltato 1.100 aspiranti imprenditori, ha aperto alle clean technologies e sta per avviare una succursale nella Silicon Valley. Serazzi, 18 anni di Olivetti prima di traghettare alla carriera accademica, dice che il modello «è un ibrido: non esiste nulla in Italia che abbia tra i soci imprese ed enti pubblici e sia gestito da una fondazione». Eppur si muove. La fondazione è snella quanto basta per decisioni veloci, gli enti pubblici finanziano quanto serve, i cervelli trovano spazi attrezzati e tutoring manageriale per non perdere animo e andare avanti. Oggi Serazzi dà una cifra eloquente: «Creare un posto di lavoro in una delle nostre start up costa 50 mila euro, nel 2007 la cifra era dieci volte superiore». Crescono le idee, calano i prezzi d'avviamento.

Il confronto con l'estero
Da quando John Mancuso, anno 1951, affittò a Batavia, Illinois, un palazzo di mattoni rossi per ospitare aspiranti imprenditori, il «modello serra» - come lo chiamano gli inglesi - ha dato molti frutti. In Europa i primi incubatori sono arrivati negli anni 60, a Edimburgo, Cambridge e Oxford. Negli anni 80 si sono aggiunte Scandinavia e Germania. Il boom dei pc e internet hanno messo ali al modello: l'Incubator forum, che raggruppa i dati di 25 paesi, calcola che siano oggi 3.300 le strutture pubbliche o private, aperte a fondi pubblici o a venture capital, che fanno ponte tra ricerca e impresa. L'incubatore riduce le diseconomie. Così, vale per Milano la ragione del successo mondiale di strutture come queste: a cinque anni dalla nascita, il tasso di sopravvivenza delle start up allevate in coltura è dell'80-90% contro una media del 30-50%. Ma con una differenza: l'Europa ha compreso che i finanziamenti pubblici non sono uno spreco. Accade in Inghilterra, con la United Kingdom business incubation che alimenta le oltre 200 serre; in Germania, con finanziamenti federali ai 500 centri tecnologici, e in Svezia, dove i fondi - secondo l'esperienza diretta di Serazzi - «vengono elezionati con cura e concentrati su 7-8 poli d'eccellenza».

E a Milano? Soldi dagli enti locali, qualcosa dalle imprese. E autofinanziamento. Com'è accaduto alla Ske, fondata da Sara Mantero, ricercatrice del Politecnico nel settore biomedicale, che con quattro allievi ha messo su una start up nel settore di ingegneria dei tessuti organici. «Ci crediamo e abbiamo deciso di investire anche in prima persona» racconta. Sara e il suo team hanno ottimi motivi per crederci. Nel novembre 2008 hanno partecipato al primo trapianto di trachea, effettuato a Barcellona da un chirurgo italiano, Paolo Macchiarini. L'apparecchio che ha reso possibile l'intervento ha visto la luce proprio tra i locali del dipartimento di bioingegneria del Politecnico di Milano, con l'apporto di soci della Ske. «È un bioreattore – spiega Mantero – che ci ha permesso di ripopolare il tessuto della trachea da impiantare, ripulendolo, con campi fisici adeguati, dalle cellule del donatore». Prima del d-day, prove in laboratorio, poi su animale in partnership con l'università di Bristol, infine Barcellona. L'intervento è riuscito, il paziente è ancora vivo, il bioreattore è diventato un attrezzo che il colosso americano Harvard Bioscience, quotazione al Nasdaq e oltre un secolo di storia alle spalle, ha notato, testato e brevettato. «Abbiamo ceduto la licenza – continua Mantero – riservandoci la distribuzione per l'Italia, che sta per partire in questi giorni». Che una start up del genere trovi partnership all'estero e debba ricorrere in patria all'autofinanziamento è un piccolo paradosso del made in Italy: grandi cervelli, piccoli finanziatori.

  CONTINUA ...»

25 gennaio 2010
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